Se potessimo attraversare età, storie, sogni e possibilità e tornare di nuovo qui per ritrovarci?
Celebreremo insieme una festa della nostra anima, passata attraverso ogni cosa e ritrovata più bella, perché più grande, come quella dell’Umanità.
Celebreremo insieme una festa della nostra anima, passata attraverso ogni cosa e ritrovata più bella, perché più grande, come quella dell’Umanità.
a cura di Antongiulio Zimarino
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Le possibilità dell’immaginazione
L’immaginazione ci fa viaggiare attraverso il tempo e lo spazio ed è per questo che essa diventa virtù (o desiderio) per tutti coloro che non si accontentano mai troppo di quello che sono le circostanze.
Ovviamente l’“immaginare” può essere un modo di fuggire e di evitare qualcosa, ma può anche essere considerato più correttamente come una modalità di conoscere, ragionare e indagare, a partire dalle cose reali, spingendosi verso quelle possibili e ipotetiche. In fondo l’immaginazione consente di rendere visibile e condivisibile con gli altri, un percorso (analitico, mentale, analogico ecc.) svolto dentro possibilità, probabilità, ipotesi e variabili. L’immaginazione fa percorrere luoghi possibili, offrendo situazioni e sensi interpretativi verosimili e probabili: è la struttura espressiva del possibile, quindi probabilmente, il miglior strumento per vivere sensatamente, perché sa continuamente andare dentro e attraverso le coordinate certe della realtà., al di là del tempo e dello spazio. Immaginare ( e con immaginare non intendo la facoltà astratta del pensare, ma la capacità di restituire in forma concreta, un processo di relazioni mentali) è in fondo, il modo per dare corpo a delle nuove possibilità di capire e di interpretare.
C’è una cosa che ultimamente mi fa molto riflettere riguardo l’immaginazione: essa mi appare sostanzialmente inutile se non cerca di restituirsi alla relazione con gli altri. Se non ha la possibilità di essere condivisa, mostrata, discussa, contemplata ed espressa, (come ogni cosa che nasca in noi) , essa non è, oppure diventa una forma di alienazione. Per cui comincio a credere che positivamente, costruttivamente, l’immaginazione vive solo della possibilità e della speranza che possa essere mostrata e condivisa.
Lo sforzo dell’artista (ma credo che sia comunque il desiderio di ciascun essere umano) è quello di partecipare gli altri di un proprio mondo, sperando così di vederlo “abitato” da altri pensieri e altre relazioni che lo possano ancora formare e riformare, lo possano definire e precisare sempre meglio.. Per questo le opere dell’immaginazione “vanno esposte”, per questo un sentimento viene espresso, per questo una idea viene partecipata, perché si vuol capire la sua sensatezza e la sua probabilità di spiegare. “Esporre” vuol dire “dare” e condividere il frutto del proprio immaginare agli altri, dare il profilo della propria interiorità e identità. Non è facile farlo: delle volte non si ha la possibilità di esprimere l’esatta identità di ciò che si è pensato, altre volte non è facile essere compresi ma per lo più accade che siano veramente pochi coloro che si prendono la briga di provare a capire. Insomma lavorando ed esprimendo l’immaginazione, ci si mette in gioco rischiando di scoprire che il proprio gioco dell’immaginare, non interessi o non esprima. Ma non si può non farlo, perché non si riesce a pensare di “non trovare senso” e ragioni a ciò che di più bello e più puro si sente di essere”dentro”.
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Il significato del “sepolcro”
Mi si perdoni, ma questa riflessione sull’immaginazione per me ha profondamente a che fare con quella che è la tradizione cristiana del cosiddetto “sepolcro” implicata evidentemente in questa mostra che presentiamo. In quel tempo sospeso che intercorre tra la Passione e la Resurrezione, la tradizione cristiana espone (in forma di contemporanea “installazione”) le “coordinate (i simboli) di un processo mistico” che si va misteriosamente compiendo. Ovviamente per il cristiano è un processo quotidiano che si dà nel mistero Eucaristico ma che durante il tempo della Pasqua, trova evidenza pubblica e celebrativa. Il “sepolcro” è una sospensione mistica ed esistenziale, una proposta di riflessione eucaristica, uno spazio-tempo rallentato, carico allo stesso tempo di nostalgie (ricordiamo l’epica vita di Cristo) e di possibilità (attendiamo il tempo della dichiarazione del miracolo della Resurrezione).
La tradizione popolare chiama questa “installazione – ostensione”, “sepolcro”, esprimendo semplicisticamente solo l’idea di qualcosa che “conclude” qualcosa che è stato; ma il termine latino “monumentum” (utilizzato nelle passate tradizioni liturgiche) [1] ha ben altri significati: “ricordo” “memoria” o anche “atto commemorativo”, “documento”, “memoriale”. Dunque l’accezione concettuale del “sepolcro” è ben altra: il “sepolcro / monumentum” è la rappresentazione del tempo sospeso, il tempo della possibilità, l’intervallo inatteso tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. E’ quello spazio di tempo nel quale tocca a ciascuno chiedersi che senso ha, ha avuto e potrebbe avere quella “storia terrena” di Gesù, conclusasi con una enigmatica tragedia, rispetto alla “possibilità” che essa apra ad una vita differente, diversa, nuova, ovvero, ad una “resurrezione” in cui quel “prima” ritorna ad essere il “senso possibile” escatologicamente compiuto dell’”adesso”.
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Lettura e interpretazione
Veniamo ora ad analizzare il senso del lavoro “d’immagine” che Mandra Cerrone ha costruito all’interno di questa “logica”: Le immagini installative [2] nella bellissima Chiesa di S.Giovanni Battista in Penne, esprimono benissimo tanto il “senso dell’immaginazione” prima delineato, quanto l’idea di “monumentum” espressa dalla tradizione del “sepolcro”. L’insieme di immagini realizza un “hortus conclusus”, un “campo di forze” spazio temporali che hanno come obiettivo, l’ostensione di una dimensione (secondo me) bellissima dell’interiorità umana: quella dell’Anima. Provo a spiegare perché.
Nei grandi spazi delle pale d’altare, alcune immagini rappresentano delle “relazioni” umane, accadute o possibili nel futuro e nel passato. Queste immagini fotografiche, (che sono “necessariamente” pensate e costruite come “barocche” per fonderle nel “campo di senso” delineato dalla splendida architettura della Chiesa) hanno diverse caratterizzazioni: la prima è “realistica” (a colori), centrale anche “concettualmente”, legata ad un “presente”; la seconda è chiaramente “astrattiva” nei pannelli laterali in bianco e nero che suggeriscono delle ipotesi di relazioni tra i personaggi, nella logica dell’ “essere stati” e di un “potrebbe essere”. Suggeriscono così apertamente un “campo di riflessione” semantica inerente gli attraversamenti e l’intreccio di diverse dimensioni spaziotemporali.
Le immagini hanno ancora altre caratteristiche singolari che riportano al tema del “Tempo e dello spazio illimitato”: 1) esprimono una fusione “simbiotica” tra rigogliosi elementi naturali (alberi, acqua, fronde) e elementi architettonici culturali, sottolineando l’“unità” sostanziale di Natura e Cultura, coordinate entro cui evidentemente vanno lette e pensate le relazioni dei personaggi e la loro esistenza.
2) Queste immagini così fortemente simbolizzate, sono ambientate nello stesso scenario della Chiesa che le ospita e per questo, strettamente legate concettualmente ed evidentemente, allo spazio-tempo reale dei suoi fruitori, cioè, nel “presente”.
Il fatto che una immagine fortemente simbolizzata a livello spaziotemporale, rappresenti lo stesso luogo che la ospita, sottintende la volontà da parte dell’artista di generare attraverso queste “ipotesi immaginali” una disfunzione temporale del presente. Esse creano così un evidente “cortocircuito” spazio temporale, che viene accentuato e caratterizzato ulteriormente dai personaggi rappresentati, gli stessi ma con età diverse e con relazioni interpersonali diverse.
Ne viene fuori un “effetto di loop”, una sorta di sospensione ciclica di relazioni e rimandi visuali nella quale, coscienti del presente, siamo indotti (dalla stessa collocazione “ostensoria” della pala d’altare) a riflettere sulle variabili infinite delle possibilità di accadimento che ci sono state o ci potrebbero essere. Si apre così una spazio temporalità indefinita, la stessa possibile normalmente nell’interiorità: siamo portati a pensare ad un passato o a prefigurarci un futuro, a leggere gli effetti di una relazione che è stata, è o potrebbe essere; veniamo invitati a ricostruire i legami emotivi di una “narrazione” che attraversa virtualmente il tempo nello stesso luogo e nello stesso tempo in cui le stiamo guardando. Siamo cioè spinti a cercare il senso affettivo possibile che lega i personaggi, dentro uno spaccato diacronico dentro un “tempo esteso” reso dall’ambientazione, dalla cura formale, dalla densità dei simboli e dalla loro possibilità di generare senso nella relazione reciproca. Siamo cioè costretti (se vogliamo stare al gioco dell’immaginazione) a percorrere osservando, qui e ora, un tempo che non c’è o che potrebbe esserci stato, un tempo sospeso, ricordando supponendo ipoteticamente sviluppi e connessioni.
Cos’è questo, se non il tempo dell’Anima? Dunque il lavoro di Mandra diventa l’ostensione, il “monumentum” di un “presente” che resta tale pur mostrandosi nella dinamica indefinita dell’Anima che sa percorrere eternamente il senso degli eventi e delle possibilità.
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Spero che anche il “titolo narrativo” che abbiamo elaborato acquisti suo senso più chiaro: fare una esperienza d’arte può significare fare un’esperienza d’anima, non solo di freddo intelletto o di morbosa curiosità. Ma perché questo accada, ci vuole il coraggio di entrare nelle connessioni delle “possibilità” e quindi “perdersi” nella complessità suggerita, quel tempo necessario per ricombinare le possibilità espressive dei segnali complessi che l’opera ci manda.
Questa operazione diventa una sorta di “catarsi”, una “festa”, e mi si passi il paragone, una “resurrezione” dell’anima stessa. Infatti, l’accettazione del gioco di decodifica dell’immaginazione non ci ridurrà a guardare le cose tentando di incasellarle a forza nelle categorie che ci siamo formati per l’identificazione facile [3]. Il problema dell’arte sperimentale contemporanea è che la guardiamo tentando di farla rientrare nelle categorie che possediamo, tentiamo di “normalizzarla” riconducendola al “già visto” al già detto. L’operazione non è in se stessa negativa a condizione che venga condotta valutando con discernimento le relazioni di “senso” che le forme dell’arte mettono in atto. E’ estremamente negativa quando ci accontentiamo dell’apparenza: ed è estremamente negativa la stessa arte contemporanea, quando si fonda sulla spettacolarità dell’apparenza, quando non è in grado o non sa far altro che offrire di sé, una “notabilità” che non si conferma da nessuna possibilità di lettura complessa.
Se dunque l’arte ci suggerisce la “complessità” dei suoi sensi interpretativi [4] essa favorisce la “resurrezione” dell’anima che è chiamata a coglierli. Attiva cioè un’insieme di “operazioni percettive” e “intellettive” che vengono organizzate emotivamente, esteticamente ed intellettualmente.
L’arte contemporanea in una sua autentica dimensione di “ricerca della sensatezza” può consentirci di ricomprendere e ripercorrere per via estetica, intellettuale o analogica, alcune delle possibilità significative che la vita ci offre e così facendo ci aiuterà a ricostruire la nostra sensibilità interiore, la nostra capacità di comprensione e relazione delle faccende misteriose dell’umanità.
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[1] Il termine latino “sepulcrum” è esplicitamente utilizzato per “tomba” mentre l’esposizione dei simboli della passione e dell’ostensorio vuoto della tradizione cristiana rimanda chiaramente alle implicazioni semantiche del “monumentum” che pur potendo tradurre ugualmente la parola “sepolcro”, esprime meglio l’idea di “memento” implicita nella tradizione stessa.
[2] Pensate quindi non come realtà concluse, ma nella relazione complessa con lo spazio
[3] … e prendere atteggiamenti di supponenza ogni qual volta non abbiamo il coraggio di “faticare” intellettualmente per darsi un senso possibile al visibile.
[4] Non intendiamo ovviamente la “cerebralità” retorica ma la densità speculativa del “campo semantico” che essa costruisce che può darsi anche nell’estrema semplicità.
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Le possibilità dell’immaginazione
L’immaginazione ci fa viaggiare attraverso il tempo e lo spazio ed è per questo che essa diventa virtù (o desiderio) per tutti coloro che non si accontentano mai troppo di quello che sono le circostanze.
Ovviamente l’“immaginare” può essere un modo di fuggire e di evitare qualcosa, ma può anche essere considerato più correttamente come una modalità di conoscere, ragionare e indagare, a partire dalle cose reali, spingendosi verso quelle possibili e ipotetiche. In fondo l’immaginazione consente di rendere visibile e condivisibile con gli altri, un percorso (analitico, mentale, analogico ecc.) svolto dentro possibilità, probabilità, ipotesi e variabili. L’immaginazione fa percorrere luoghi possibili, offrendo situazioni e sensi interpretativi verosimili e probabili: è la struttura espressiva del possibile, quindi probabilmente, il miglior strumento per vivere sensatamente, perché sa continuamente andare dentro e attraverso le coordinate certe della realtà., al di là del tempo e dello spazio. Immaginare ( e con immaginare non intendo la facoltà astratta del pensare, ma la capacità di restituire in forma concreta, un processo di relazioni mentali) è in fondo, il modo per dare corpo a delle nuove possibilità di capire e di interpretare.
C’è una cosa che ultimamente mi fa molto riflettere riguardo l’immaginazione: essa mi appare sostanzialmente inutile se non cerca di restituirsi alla relazione con gli altri. Se non ha la possibilità di essere condivisa, mostrata, discussa, contemplata ed espressa, (come ogni cosa che nasca in noi) , essa non è, oppure diventa una forma di alienazione. Per cui comincio a credere che positivamente, costruttivamente, l’immaginazione vive solo della possibilità e della speranza che possa essere mostrata e condivisa.
Lo sforzo dell’artista (ma credo che sia comunque il desiderio di ciascun essere umano) è quello di partecipare gli altri di un proprio mondo, sperando così di vederlo “abitato” da altri pensieri e altre relazioni che lo possano ancora formare e riformare, lo possano definire e precisare sempre meglio.. Per questo le opere dell’immaginazione “vanno esposte”, per questo un sentimento viene espresso, per questo una idea viene partecipata, perché si vuol capire la sua sensatezza e la sua probabilità di spiegare. “Esporre” vuol dire “dare” e condividere il frutto del proprio immaginare agli altri, dare il profilo della propria interiorità e identità. Non è facile farlo: delle volte non si ha la possibilità di esprimere l’esatta identità di ciò che si è pensato, altre volte non è facile essere compresi ma per lo più accade che siano veramente pochi coloro che si prendono la briga di provare a capire. Insomma lavorando ed esprimendo l’immaginazione, ci si mette in gioco rischiando di scoprire che il proprio gioco dell’immaginare, non interessi o non esprima. Ma non si può non farlo, perché non si riesce a pensare di “non trovare senso” e ragioni a ciò che di più bello e più puro si sente di essere”dentro”.
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Il significato del “sepolcro”
Mi si perdoni, ma questa riflessione sull’immaginazione per me ha profondamente a che fare con quella che è la tradizione cristiana del cosiddetto “sepolcro” implicata evidentemente in questa mostra che presentiamo. In quel tempo sospeso che intercorre tra la Passione e la Resurrezione, la tradizione cristiana espone (in forma di contemporanea “installazione”) le “coordinate (i simboli) di un processo mistico” che si va misteriosamente compiendo. Ovviamente per il cristiano è un processo quotidiano che si dà nel mistero Eucaristico ma che durante il tempo della Pasqua, trova evidenza pubblica e celebrativa. Il “sepolcro” è una sospensione mistica ed esistenziale, una proposta di riflessione eucaristica, uno spazio-tempo rallentato, carico allo stesso tempo di nostalgie (ricordiamo l’epica vita di Cristo) e di possibilità (attendiamo il tempo della dichiarazione del miracolo della Resurrezione).
La tradizione popolare chiama questa “installazione – ostensione”, “sepolcro”, esprimendo semplicisticamente solo l’idea di qualcosa che “conclude” qualcosa che è stato; ma il termine latino “monumentum” (utilizzato nelle passate tradizioni liturgiche) [1] ha ben altri significati: “ricordo” “memoria” o anche “atto commemorativo”, “documento”, “memoriale”. Dunque l’accezione concettuale del “sepolcro” è ben altra: il “sepolcro / monumentum” è la rappresentazione del tempo sospeso, il tempo della possibilità, l’intervallo inatteso tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. E’ quello spazio di tempo nel quale tocca a ciascuno chiedersi che senso ha, ha avuto e potrebbe avere quella “storia terrena” di Gesù, conclusasi con una enigmatica tragedia, rispetto alla “possibilità” che essa apra ad una vita differente, diversa, nuova, ovvero, ad una “resurrezione” in cui quel “prima” ritorna ad essere il “senso possibile” escatologicamente compiuto dell’”adesso”.
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Lettura e interpretazione
Veniamo ora ad analizzare il senso del lavoro “d’immagine” che Mandra Cerrone ha costruito all’interno di questa “logica”: Le immagini installative [2] nella bellissima Chiesa di S.Giovanni Battista in Penne, esprimono benissimo tanto il “senso dell’immaginazione” prima delineato, quanto l’idea di “monumentum” espressa dalla tradizione del “sepolcro”. L’insieme di immagini realizza un “hortus conclusus”, un “campo di forze” spazio temporali che hanno come obiettivo, l’ostensione di una dimensione (secondo me) bellissima dell’interiorità umana: quella dell’Anima. Provo a spiegare perché.
Nei grandi spazi delle pale d’altare, alcune immagini rappresentano delle “relazioni” umane, accadute o possibili nel futuro e nel passato. Queste immagini fotografiche, (che sono “necessariamente” pensate e costruite come “barocche” per fonderle nel “campo di senso” delineato dalla splendida architettura della Chiesa) hanno diverse caratterizzazioni: la prima è “realistica” (a colori), centrale anche “concettualmente”, legata ad un “presente”; la seconda è chiaramente “astrattiva” nei pannelli laterali in bianco e nero che suggeriscono delle ipotesi di relazioni tra i personaggi, nella logica dell’ “essere stati” e di un “potrebbe essere”. Suggeriscono così apertamente un “campo di riflessione” semantica inerente gli attraversamenti e l’intreccio di diverse dimensioni spaziotemporali.
Le immagini hanno ancora altre caratteristiche singolari che riportano al tema del “Tempo e dello spazio illimitato”: 1) esprimono una fusione “simbiotica” tra rigogliosi elementi naturali (alberi, acqua, fronde) e elementi architettonici culturali, sottolineando l’“unità” sostanziale di Natura e Cultura, coordinate entro cui evidentemente vanno lette e pensate le relazioni dei personaggi e la loro esistenza.
2) Queste immagini così fortemente simbolizzate, sono ambientate nello stesso scenario della Chiesa che le ospita e per questo, strettamente legate concettualmente ed evidentemente, allo spazio-tempo reale dei suoi fruitori, cioè, nel “presente”.
Il fatto che una immagine fortemente simbolizzata a livello spaziotemporale, rappresenti lo stesso luogo che la ospita, sottintende la volontà da parte dell’artista di generare attraverso queste “ipotesi immaginali” una disfunzione temporale del presente. Esse creano così un evidente “cortocircuito” spazio temporale, che viene accentuato e caratterizzato ulteriormente dai personaggi rappresentati, gli stessi ma con età diverse e con relazioni interpersonali diverse.
Ne viene fuori un “effetto di loop”, una sorta di sospensione ciclica di relazioni e rimandi visuali nella quale, coscienti del presente, siamo indotti (dalla stessa collocazione “ostensoria” della pala d’altare) a riflettere sulle variabili infinite delle possibilità di accadimento che ci sono state o ci potrebbero essere. Si apre così una spazio temporalità indefinita, la stessa possibile normalmente nell’interiorità: siamo portati a pensare ad un passato o a prefigurarci un futuro, a leggere gli effetti di una relazione che è stata, è o potrebbe essere; veniamo invitati a ricostruire i legami emotivi di una “narrazione” che attraversa virtualmente il tempo nello stesso luogo e nello stesso tempo in cui le stiamo guardando. Siamo cioè spinti a cercare il senso affettivo possibile che lega i personaggi, dentro uno spaccato diacronico dentro un “tempo esteso” reso dall’ambientazione, dalla cura formale, dalla densità dei simboli e dalla loro possibilità di generare senso nella relazione reciproca. Siamo cioè costretti (se vogliamo stare al gioco dell’immaginazione) a percorrere osservando, qui e ora, un tempo che non c’è o che potrebbe esserci stato, un tempo sospeso, ricordando supponendo ipoteticamente sviluppi e connessioni.
Cos’è questo, se non il tempo dell’Anima? Dunque il lavoro di Mandra diventa l’ostensione, il “monumentum” di un “presente” che resta tale pur mostrandosi nella dinamica indefinita dell’Anima che sa percorrere eternamente il senso degli eventi e delle possibilità.
...
Spero che anche il “titolo narrativo” che abbiamo elaborato acquisti suo senso più chiaro: fare una esperienza d’arte può significare fare un’esperienza d’anima, non solo di freddo intelletto o di morbosa curiosità. Ma perché questo accada, ci vuole il coraggio di entrare nelle connessioni delle “possibilità” e quindi “perdersi” nella complessità suggerita, quel tempo necessario per ricombinare le possibilità espressive dei segnali complessi che l’opera ci manda.
Questa operazione diventa una sorta di “catarsi”, una “festa”, e mi si passi il paragone, una “resurrezione” dell’anima stessa. Infatti, l’accettazione del gioco di decodifica dell’immaginazione non ci ridurrà a guardare le cose tentando di incasellarle a forza nelle categorie che ci siamo formati per l’identificazione facile [3]. Il problema dell’arte sperimentale contemporanea è che la guardiamo tentando di farla rientrare nelle categorie che possediamo, tentiamo di “normalizzarla” riconducendola al “già visto” al già detto. L’operazione non è in se stessa negativa a condizione che venga condotta valutando con discernimento le relazioni di “senso” che le forme dell’arte mettono in atto. E’ estremamente negativa quando ci accontentiamo dell’apparenza: ed è estremamente negativa la stessa arte contemporanea, quando si fonda sulla spettacolarità dell’apparenza, quando non è in grado o non sa far altro che offrire di sé, una “notabilità” che non si conferma da nessuna possibilità di lettura complessa.
Se dunque l’arte ci suggerisce la “complessità” dei suoi sensi interpretativi [4] essa favorisce la “resurrezione” dell’anima che è chiamata a coglierli. Attiva cioè un’insieme di “operazioni percettive” e “intellettive” che vengono organizzate emotivamente, esteticamente ed intellettualmente.
L’arte contemporanea in una sua autentica dimensione di “ricerca della sensatezza” può consentirci di ricomprendere e ripercorrere per via estetica, intellettuale o analogica, alcune delle possibilità significative che la vita ci offre e così facendo ci aiuterà a ricostruire la nostra sensibilità interiore, la nostra capacità di comprensione e relazione delle faccende misteriose dell’umanità.
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[1] Il termine latino “sepulcrum” è esplicitamente utilizzato per “tomba” mentre l’esposizione dei simboli della passione e dell’ostensorio vuoto della tradizione cristiana rimanda chiaramente alle implicazioni semantiche del “monumentum” che pur potendo tradurre ugualmente la parola “sepolcro”, esprime meglio l’idea di “memento” implicita nella tradizione stessa.
[2] Pensate quindi non come realtà concluse, ma nella relazione complessa con lo spazio
[3] … e prendere atteggiamenti di supponenza ogni qual volta non abbiamo il coraggio di “faticare” intellettualmente per darsi un senso possibile al visibile.
[4] Non intendiamo ovviamente la “cerebralità” retorica ma la densità speculativa del “campo semantico” che essa costruisce che può darsi anche nell’estrema semplicità.
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