Esserci veramente
Leggendo in questo periodo un interessantissimo volume riflettevo sulle modalità della “presenza” dell’arte nel contesto sociale, culturale, economico e immaginale e su cosa ne determina evidenza, successo, dimenticanza, rimozione, fortuna e quant’altro.
A quanto pare, conoscere le dinamiche sociologiche che regolano il porsi dell’attività artistica (ma in definitiva, di qualsiasi attività culturale) porta in evidenza una questione di fondo, quella della finalizzazione del pensare o del fare: ragionare, produrre o fare qualcosa di culturale quali finalità persegue? Esiste la possibilità di definire (e conseguentemente valutare e considerare) ragione e motivazione di un “valore”? Se la “finalità” determina solo l’evidenza del prodotto, come è possibile evitare di considerare la “qualità”? Come mai è sufficiente la finalità al fine della considerazione mentre la categoria della “qualità” non è di per se sufficiente al riconoscimento pubblico ? In pratica, se la condizione ideale della comunicazione d’arte dovrebbe essere quella della evidenziazione della qualità, ci si accorge studiando i meccanismi di strutturazione sociologica che essa in realtà, non è affatto determinante. E’ perfettamente possibile dare come “da notarsi” qualcosa senza che di quel qualcosa sia definibile una sostanza ed è estremamente semplice attribuire sostanza “a posteriori” a qualcosa solo perché essa sia diventata “notevole” nel contesto. Si pensa cioè che in quanto l’opera, l’oggetto o il pensiero abbiano raggiunto una posizione “da considerarsi” esso / essi siano qualitativamente determinanti.
Non è la prima volta che incrocio la “quaestio” e continuo a sentirla come nodale. La conoscenza delle modalità relazionali entro cui una creazione “culturale” si pone, consente tanto di analizzare e comprendere, quanto di progettare e ordinare una strategia secondo la quale, il fare o il pensare possano acquistare una “presenza”, una determinata rilevanza nell’”esserci”; la conoscenza di queste modalità consentono cioè, di entrare nel gioco della considerazione altrui e consentendo al pensare e al fare, di essere un elemento da considerarsi nelle più generale costruzione dell’identità della cultura. Più prosaicamente, la conoscenza e l’uso consapevole delle modalità relazionali può aprire la strada verso una considerazione anche capitalizzabile in termini economici o di potere. Conoscere e studiare il meccanismo e le sue leggi può essere un modo per pianificare, oltre che per provare a capire, come quanto e quando, il mio o l’altrui “esserci”, abbia rilievo. E’ questa in sostanza la capacità del “marketing” dell’idea o della forma.
Attraverso questa conoscenza e consapevolezza, sposto il mio interesse non tanto sulla ragione che io intendo esprimere quanto sulla modalità attraverso cui l’esprimere possa darsi come notabile. Sposto la direzione del pensare e del fare sul come affermarlo e non sul cosa sostanzialmente affermi. Al di là di ciò che possa dire, la conoscenza delle modalità dell’affermazione possono far sì che il mio dire possa acquisire una qualche rilevanza (maggiore o minore a seconda delle possibilità di percorrere le modalità e le strade relazionali dell’affermarsi).
Ma è questo che fa “essere”? E’ questa capacità di “presenza” che definisce la sostanza dell’esserci? Il problema mi sembra dunque racchiuso nella tentativo di distinguere e definire se è possibile che una un pensiero ( o un opera) sia “da notarsi” in ragione della sua possibilità di essere semplicemente “presente” o se forse esso (essa) possa diventare “notevole” per la sua “essenza” cioè per la sua identità culturale.
Nell’oggi credo che la bilancia penda dalla parte della presenza perché in fondo, essa non [ nient’altro che la condizione dello “spettacolo”: per l’artista vero presunto, per lo scrittore, per il curatore, per il critico, per uno qualsiasi degli attori e dei soggetti che costruiscono il campo identitario della cultura “da notarsi”, la “presenza” è il dato significativo, il dato che determina la “sensatezza”, cioè, la ragione del proprio fare.
Il luogo relazionale che si occupa, la capacità di esser visti e considerati in esso o tra essi, è la conferma di un “essere”, è la misura della nostra identità, è la scala di valore del nostro fare e pensare. Il “successo” è essere visti, essere presenti, essere considerabili, è il luogo che occupiamo insieme all’identità che siamo o vorremmo essere.
Queste riflessioni si vanno ad incrociare con l’altra mia fecondissima lettura di questo periodo: la società dello spettacolo, di Guy Debord.E’ un libro arduo, terribile e profetico che spiega molto, secondo me, di un trapasso e di uno stato di cose della nostra contemporaneità.
A proposito di questa nostra riflessione dice ad esempio Debord: “Lo spettacolo (n.d.r. il mostrarsi, l’occupare una visibilità) si presenta come una enorme positività indiscutibile e inaccessibile.Esso non dice niente di più di questo, che “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare”. L’attitudine che esso esige per principio è questa accettazione passiva che di fatto ha già ottenuto con il suo modo di apparire senza repliche, con il suo monopolio dell’apparenza.”
Il processo sociale, culturale ed economico fotografato e descritto da Debord ha cambiato profondamente la modalità di pensare e costruire il proprio essere come identità e come relazione, ma al di là della constatazione di un processo avvenuto e che avviene, la prospettiva in cui il pensatore francese ci colloca, fa diventare problema centrale della cultura stessa, il”come” intendiamo pensare noi stessi, il come vogliamo che sia il nostro “darci” alla relazione con l’altro e con il contesto.
Personalmente mi sembra antropologicamente scorretto sostenere che l’essere sia unicamente determinato valorialmente dall’appartenenza ad una posizione contestuale determinabile, per cui penso che oltre le constatazioni che il libro di Debord offre, oltre le sistemazioni sociologiche che la Heinich traccia, sia possibile pensare diversamente “l’esserci”, il vivere e riflettere il proprio tempo.
La capacità analitica e riflessiva legata all’atto del conoscere, del pensare e del riesprimere, (una creatività, una riflesione “pensata” cioè esprimibile nella sua sostanza e descrivibile nei suoi possibili processi) permette oltre che di “scoprire” e conoscere, anche di intervenire tanto nel “processo” che conduce alla visibilità quanto nell’idea che si ha di identità: il problema diventa dunque etico cioè, cosa intendiamo farne della capacità di comprendere, definire e progettare i processi e gli esiti della “visibilità”.
La coscienza della modalità attraverso cui i fenomeni possono acquisire notabilità e rilevanza, porta ad una necessaria presa di posizione critica nei loro confronti: non si tratta però di giudicare come e perché i fenomeni divengano notabili e rilevanti, ma di comprendere quale sia la loro portata intrinseca rispetto ad una valorialità del campo semantico a cui riferiscono. Implicitamente bisognerebbe valutarli rispetto a cosa riteniamo sia vero è giusto (eticamente, esistenzialmente, scientificamente) rispetto alla definizione di una loro identità.
Corollario alla questione: è il fenomeno che nella sua “necessità” di procedere e di collocare, ordina necessariamente il comportamento o la sensatezza di chi lo ha prodotto?
Nel campo dell’arte le questioni diventano le seguenti: l’opera ha senso per il luogo che occupa o per la sua identità? L’artista ha rilevanza per la sua capacità strategica o per la sostanza estetico – speculativa del suo fare? Il pensare l’arte vale per la coerenza metodologica del suo disporsi o per la posizione di visibilità che genera o che mantiene?
La questione nodale dell’arte contemporanea resta dunque giocata entro questa condizione: se la strategia della rilevanza sia maggiore dell’effettiva portata semantica e formale dell’opera. Per poter dare una soluzione alla questione, che implica la definizione stessa della cultura contemporanea se essa sia essenzialmente (parafrasando Debord) “cultura dello spettacolo” (determinata cioè dalla visibilità) o “cultura dell’Identità”, la critica deve tornare a darsi una metodologia coerente, un campo di azione determinato dalle sue ragioni culturali e non ideologiche o relazionali.
Ma tornare ad analizzare l’identità del ricercare o del pensare (e poi provare a distinguere i fenomeni su quelle basi) è una azione difficile e rischiosa che può avere spesso, come conseguenza, l’emarginazione dalla “società dello spettacolo”, l’allontanamento dalle regole sociologiche della “visibilità”. La ricerca dell’identità fuori dall’apparenza, “non paga” in termini di riconoscibilità se è vero che nel nostro contesto attuale, “essere” significa “essere riconosciuti” e partecipare allo “spettacolo”.
E qui si gioca una partita interessante, su ciò che per noi significa “esserci”. Il “ – ci” implica la relazione, l’essere disposti a riconoscere la reciproca identità: l’altro deve riconoscerci e noi dobbiam riconoscere l’altro. Ma in definitiva, cosa vogliamo che di noi sia riconosciuto? Cosa pensiamo che sia importante riconoscere dell’altro? Da cosa intendiamo determinare o farci determinare?
E’ chiaro che stiamo passando su un piano sostanzialmente “etico” ma se i nostri termini di riflessione si stanno muovendo tra i limiti dell’apparenza e dell’identità, è conseguente che la partita la stiamo giocando anche con il concetto di “verità”. Cosa pensiamo sia vero di noi?
Per estensione, cosa pensiamo sia “vero” dell’opera d’arte? Su cosa pensiamo sia giusto costruire un processo di riflessione culturale, sull’indagine di una possibile “verità – identitaria” dell’opera o sulla sua capacità che essa ha di occupare una visibilità?
La questione, prima di arrivare a delle considerazioni conclusive ha bisogno di un “inciso” cioè su come si possa percorrere la possibile “verità – identità” dell’opera (ma per esteso, potremmo anche intendere, dell’individuo).
Penso di aver riassunto in qualche modo la questione, in alcuni capitoli di un mio libro in uscita nei quali ho provato a condensare le ragioni che ridanno centralità ad un discosro critico sull’arte. Parlare della possibile identità di un’opera d’arte è una operazione incessante e aperta che si compie definendo delle modalità e dei processi analitici differenti che indaghino le implicazioni e le relazioni culturali vaste che l’opera mette in gioco. Senza la pretesa di definizione, il discorso critico, in base alla coerenza della sua metodologia e della sua esposizione, dispone ipotesi sensate: l’identità si configura dunque come la complessità della sensatezza che l’opera evidenzia.
Dunque ridurre l’identità ad un solo aspetto, è una scorrettezza; proporre identità per posizione è malafede interessata; attribuire identità per ideologia è dogmatismo e dittatura; dare valore economico a un’identità non chiara, ottenuta per “posizione” è speculazione; discutere e costruire discorsi su qualcosa, senza averne ipotizzato una identità complessa possibile e credibile è sostanzialmente inutile. Più utile e più “vero” sarebbe passare le “evidenze” della spettacolarità al vaglio di una ricerca identitaria, radicata in un metodo credibile.
Oggi prevale indubbiamente la “società dello spettacolo” e la sua sostanza prescrittiva e “dittatoriale” rispetto a ciò che sia mostrabile e valutabile. In sostanza essa realizza il setting del nostro immaginario e quindi stabilisce l’identificazione valoriale dell’oggetto, senza che esso sia in se stesso considerabile come identità ma soltanto in base alla sua posizione. Il campo della critica è dunque quello di indagare l’identità dei fenomeni per comprendere se quella posizione è credibile, è sensata. Esimersi dall’essere realmente “critici” significa accettare l’apparenza come verità, significa condannarsi al sembrare nell’illusione di essere, ma è necessario essere “critici” dell’identità cioè di scavare dentro la possibile sensatezza dei fenomeni e non dele relazioni tra essi.
Il problema è che tutto sommato, siamo in un contesto dove è più conveniente e piacevole, potenzialmente, sembrare che essere. Allora la partita per la verità si gioca nella coscienza ma questo è un campo dove non si può “giudicare”. Possiamo tuttavia imparare a guardare lo spettacolo e capirne i meccanismi, svelarli, suggerirne alternative, magari da posizioni “deboli” rispetto allo spettacolo stesso e tutto questo ha il suo senso unicamente nel desiderio che si tiene in cuore di “essere per davvero” e se mai, di essere riconosciuti e riconoscersi “per la verità” possibile di ciò che siamo.
Ciò non da soldi né fama, ma almeno il rispetto e la sincerità dei rapporti. Ci dà il senso di stare a questo mondo, con un pensiero e una storia, con l’intelligenza e l’apertura, con la libertà, di “esserci veramente”.
Antongiulio Zimarino
Leggendo in questo periodo un interessantissimo volume riflettevo sulle modalità della “presenza” dell’arte nel contesto sociale, culturale, economico e immaginale e su cosa ne determina evidenza, successo, dimenticanza, rimozione, fortuna e quant’altro.
A quanto pare, conoscere le dinamiche sociologiche che regolano il porsi dell’attività artistica (ma in definitiva, di qualsiasi attività culturale) porta in evidenza una questione di fondo, quella della finalizzazione del pensare o del fare: ragionare, produrre o fare qualcosa di culturale quali finalità persegue? Esiste la possibilità di definire (e conseguentemente valutare e considerare) ragione e motivazione di un “valore”? Se la “finalità” determina solo l’evidenza del prodotto, come è possibile evitare di considerare la “qualità”? Come mai è sufficiente la finalità al fine della considerazione mentre la categoria della “qualità” non è di per se sufficiente al riconoscimento pubblico ? In pratica, se la condizione ideale della comunicazione d’arte dovrebbe essere quella della evidenziazione della qualità, ci si accorge studiando i meccanismi di strutturazione sociologica che essa in realtà, non è affatto determinante. E’ perfettamente possibile dare come “da notarsi” qualcosa senza che di quel qualcosa sia definibile una sostanza ed è estremamente semplice attribuire sostanza “a posteriori” a qualcosa solo perché essa sia diventata “notevole” nel contesto. Si pensa cioè che in quanto l’opera, l’oggetto o il pensiero abbiano raggiunto una posizione “da considerarsi” esso / essi siano qualitativamente determinanti.
Non è la prima volta che incrocio la “quaestio” e continuo a sentirla come nodale. La conoscenza delle modalità relazionali entro cui una creazione “culturale” si pone, consente tanto di analizzare e comprendere, quanto di progettare e ordinare una strategia secondo la quale, il fare o il pensare possano acquistare una “presenza”, una determinata rilevanza nell’”esserci”; la conoscenza di queste modalità consentono cioè, di entrare nel gioco della considerazione altrui e consentendo al pensare e al fare, di essere un elemento da considerarsi nelle più generale costruzione dell’identità della cultura. Più prosaicamente, la conoscenza e l’uso consapevole delle modalità relazionali può aprire la strada verso una considerazione anche capitalizzabile in termini economici o di potere. Conoscere e studiare il meccanismo e le sue leggi può essere un modo per pianificare, oltre che per provare a capire, come quanto e quando, il mio o l’altrui “esserci”, abbia rilievo. E’ questa in sostanza la capacità del “marketing” dell’idea o della forma.
Attraverso questa conoscenza e consapevolezza, sposto il mio interesse non tanto sulla ragione che io intendo esprimere quanto sulla modalità attraverso cui l’esprimere possa darsi come notabile. Sposto la direzione del pensare e del fare sul come affermarlo e non sul cosa sostanzialmente affermi. Al di là di ciò che possa dire, la conoscenza delle modalità dell’affermazione possono far sì che il mio dire possa acquisire una qualche rilevanza (maggiore o minore a seconda delle possibilità di percorrere le modalità e le strade relazionali dell’affermarsi).
Ma è questo che fa “essere”? E’ questa capacità di “presenza” che definisce la sostanza dell’esserci? Il problema mi sembra dunque racchiuso nella tentativo di distinguere e definire se è possibile che una un pensiero ( o un opera) sia “da notarsi” in ragione della sua possibilità di essere semplicemente “presente” o se forse esso (essa) possa diventare “notevole” per la sua “essenza” cioè per la sua identità culturale.
Nell’oggi credo che la bilancia penda dalla parte della presenza perché in fondo, essa non [ nient’altro che la condizione dello “spettacolo”: per l’artista vero presunto, per lo scrittore, per il curatore, per il critico, per uno qualsiasi degli attori e dei soggetti che costruiscono il campo identitario della cultura “da notarsi”, la “presenza” è il dato significativo, il dato che determina la “sensatezza”, cioè, la ragione del proprio fare.
Il luogo relazionale che si occupa, la capacità di esser visti e considerati in esso o tra essi, è la conferma di un “essere”, è la misura della nostra identità, è la scala di valore del nostro fare e pensare. Il “successo” è essere visti, essere presenti, essere considerabili, è il luogo che occupiamo insieme all’identità che siamo o vorremmo essere.
Queste riflessioni si vanno ad incrociare con l’altra mia fecondissima lettura di questo periodo: la società dello spettacolo, di Guy Debord.E’ un libro arduo, terribile e profetico che spiega molto, secondo me, di un trapasso e di uno stato di cose della nostra contemporaneità.
A proposito di questa nostra riflessione dice ad esempio Debord: “Lo spettacolo (n.d.r. il mostrarsi, l’occupare una visibilità) si presenta come una enorme positività indiscutibile e inaccessibile.Esso non dice niente di più di questo, che “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare”. L’attitudine che esso esige per principio è questa accettazione passiva che di fatto ha già ottenuto con il suo modo di apparire senza repliche, con il suo monopolio dell’apparenza.”
Il processo sociale, culturale ed economico fotografato e descritto da Debord ha cambiato profondamente la modalità di pensare e costruire il proprio essere come identità e come relazione, ma al di là della constatazione di un processo avvenuto e che avviene, la prospettiva in cui il pensatore francese ci colloca, fa diventare problema centrale della cultura stessa, il”come” intendiamo pensare noi stessi, il come vogliamo che sia il nostro “darci” alla relazione con l’altro e con il contesto.
Personalmente mi sembra antropologicamente scorretto sostenere che l’essere sia unicamente determinato valorialmente dall’appartenenza ad una posizione contestuale determinabile, per cui penso che oltre le constatazioni che il libro di Debord offre, oltre le sistemazioni sociologiche che la Heinich traccia, sia possibile pensare diversamente “l’esserci”, il vivere e riflettere il proprio tempo.
La capacità analitica e riflessiva legata all’atto del conoscere, del pensare e del riesprimere, (una creatività, una riflesione “pensata” cioè esprimibile nella sua sostanza e descrivibile nei suoi possibili processi) permette oltre che di “scoprire” e conoscere, anche di intervenire tanto nel “processo” che conduce alla visibilità quanto nell’idea che si ha di identità: il problema diventa dunque etico cioè, cosa intendiamo farne della capacità di comprendere, definire e progettare i processi e gli esiti della “visibilità”.
La coscienza della modalità attraverso cui i fenomeni possono acquisire notabilità e rilevanza, porta ad una necessaria presa di posizione critica nei loro confronti: non si tratta però di giudicare come e perché i fenomeni divengano notabili e rilevanti, ma di comprendere quale sia la loro portata intrinseca rispetto ad una valorialità del campo semantico a cui riferiscono. Implicitamente bisognerebbe valutarli rispetto a cosa riteniamo sia vero è giusto (eticamente, esistenzialmente, scientificamente) rispetto alla definizione di una loro identità.
Corollario alla questione: è il fenomeno che nella sua “necessità” di procedere e di collocare, ordina necessariamente il comportamento o la sensatezza di chi lo ha prodotto?
Nel campo dell’arte le questioni diventano le seguenti: l’opera ha senso per il luogo che occupa o per la sua identità? L’artista ha rilevanza per la sua capacità strategica o per la sostanza estetico – speculativa del suo fare? Il pensare l’arte vale per la coerenza metodologica del suo disporsi o per la posizione di visibilità che genera o che mantiene?
La questione nodale dell’arte contemporanea resta dunque giocata entro questa condizione: se la strategia della rilevanza sia maggiore dell’effettiva portata semantica e formale dell’opera. Per poter dare una soluzione alla questione, che implica la definizione stessa della cultura contemporanea se essa sia essenzialmente (parafrasando Debord) “cultura dello spettacolo” (determinata cioè dalla visibilità) o “cultura dell’Identità”, la critica deve tornare a darsi una metodologia coerente, un campo di azione determinato dalle sue ragioni culturali e non ideologiche o relazionali.
Ma tornare ad analizzare l’identità del ricercare o del pensare (e poi provare a distinguere i fenomeni su quelle basi) è una azione difficile e rischiosa che può avere spesso, come conseguenza, l’emarginazione dalla “società dello spettacolo”, l’allontanamento dalle regole sociologiche della “visibilità”. La ricerca dell’identità fuori dall’apparenza, “non paga” in termini di riconoscibilità se è vero che nel nostro contesto attuale, “essere” significa “essere riconosciuti” e partecipare allo “spettacolo”.
E qui si gioca una partita interessante, su ciò che per noi significa “esserci”. Il “ – ci” implica la relazione, l’essere disposti a riconoscere la reciproca identità: l’altro deve riconoscerci e noi dobbiam riconoscere l’altro. Ma in definitiva, cosa vogliamo che di noi sia riconosciuto? Cosa pensiamo che sia importante riconoscere dell’altro? Da cosa intendiamo determinare o farci determinare?
E’ chiaro che stiamo passando su un piano sostanzialmente “etico” ma se i nostri termini di riflessione si stanno muovendo tra i limiti dell’apparenza e dell’identità, è conseguente che la partita la stiamo giocando anche con il concetto di “verità”. Cosa pensiamo sia vero di noi?
Per estensione, cosa pensiamo sia “vero” dell’opera d’arte? Su cosa pensiamo sia giusto costruire un processo di riflessione culturale, sull’indagine di una possibile “verità – identitaria” dell’opera o sulla sua capacità che essa ha di occupare una visibilità?
La questione, prima di arrivare a delle considerazioni conclusive ha bisogno di un “inciso” cioè su come si possa percorrere la possibile “verità – identità” dell’opera (ma per esteso, potremmo anche intendere, dell’individuo).
Penso di aver riassunto in qualche modo la questione, in alcuni capitoli di un mio libro in uscita nei quali ho provato a condensare le ragioni che ridanno centralità ad un discosro critico sull’arte. Parlare della possibile identità di un’opera d’arte è una operazione incessante e aperta che si compie definendo delle modalità e dei processi analitici differenti che indaghino le implicazioni e le relazioni culturali vaste che l’opera mette in gioco. Senza la pretesa di definizione, il discorso critico, in base alla coerenza della sua metodologia e della sua esposizione, dispone ipotesi sensate: l’identità si configura dunque come la complessità della sensatezza che l’opera evidenzia.
Dunque ridurre l’identità ad un solo aspetto, è una scorrettezza; proporre identità per posizione è malafede interessata; attribuire identità per ideologia è dogmatismo e dittatura; dare valore economico a un’identità non chiara, ottenuta per “posizione” è speculazione; discutere e costruire discorsi su qualcosa, senza averne ipotizzato una identità complessa possibile e credibile è sostanzialmente inutile. Più utile e più “vero” sarebbe passare le “evidenze” della spettacolarità al vaglio di una ricerca identitaria, radicata in un metodo credibile.
Oggi prevale indubbiamente la “società dello spettacolo” e la sua sostanza prescrittiva e “dittatoriale” rispetto a ciò che sia mostrabile e valutabile. In sostanza essa realizza il setting del nostro immaginario e quindi stabilisce l’identificazione valoriale dell’oggetto, senza che esso sia in se stesso considerabile come identità ma soltanto in base alla sua posizione. Il campo della critica è dunque quello di indagare l’identità dei fenomeni per comprendere se quella posizione è credibile, è sensata. Esimersi dall’essere realmente “critici” significa accettare l’apparenza come verità, significa condannarsi al sembrare nell’illusione di essere, ma è necessario essere “critici” dell’identità cioè di scavare dentro la possibile sensatezza dei fenomeni e non dele relazioni tra essi.
Il problema è che tutto sommato, siamo in un contesto dove è più conveniente e piacevole, potenzialmente, sembrare che essere. Allora la partita per la verità si gioca nella coscienza ma questo è un campo dove non si può “giudicare”. Possiamo tuttavia imparare a guardare lo spettacolo e capirne i meccanismi, svelarli, suggerirne alternative, magari da posizioni “deboli” rispetto allo spettacolo stesso e tutto questo ha il suo senso unicamente nel desiderio che si tiene in cuore di “essere per davvero” e se mai, di essere riconosciuti e riconoscersi “per la verità” possibile di ciò che siamo.
Ciò non da soldi né fama, ma almeno il rispetto e la sincerità dei rapporti. Ci dà il senso di stare a questo mondo, con un pensiero e una storia, con l’intelligenza e l’apertura, con la libertà, di “esserci veramente”.
Antongiulio Zimarino
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