di Domenico Scudero
Pochi giorni fa mentre me ne stavo accidioso davanti al computer nel mio studio “clandestino” all’università ho trovato sulla scrivania una busta contenente un libro, dal titolo “Al riparo dal pensiero”. L’autore, Antonio Zimarino, mi era sino a quel momento sconosciuto. Il libro, edizioni Tracce di Pescara, presenta in copertina l’immagine di un uomo imbrigliato da una museruola. La grafica scarna, i colori della copertina in bianco e nero con il solo titolo in rosso lasciavano supporre un testo scritto a muso duro, diretto. Mentre la segretaria con il suo chiacchiericcio subdolo tentava di distrarmi dall’indagine ho realizzato con una punta d’invidia e molta ammirazione che quel testo parlava della critica d’arte attuale e delle relazioni con le metodologie curatoriali del nostro tempo. Perché una punta d’invidia? Quando nel 1992 scrissi il testo “Avanguardia nel presente” avevo pensato di fare qualcosa di molto simile nel formato. In quegli anni credevo che del discorso critico non si volesse parlare, distratti come si era dalle dinamiche imperanti del fare e del produrre cose, azioni, mostre e spettacoli. Conservo con una certa gelosia la lettera di diniego speditami dall’allora responsabile della Feltrinelli in cui si diceva con una cruda forza polemica, quasi insultante, che di critica se n’era già fatta troppa e che il mondo poteva farne oramai a meno. Avrei persino voluto risponderle ancora più polemicamente confutando il significato che lei faceva di “critica” e che in realtà designava un’attitudine retorica in voga per tutto il decennio degli Ottanta e che nei primi Novanta era confluita nella testualità descrittiva o affabulatoria dei critici curatori. Il fatto è che già in quegli anni l’idea perniciosa della critica d’arte, di un linguaggio pieno e denso di significati che fosse connaturato al percorso dell’arte, riusciva incomprensibile soprattutto agli occhi di chi quelle letture le confinava ad un livello utilitaristico e funzionale. Mi ci sono voluti otto anni per riuscire a pubblicare il testo di “Avanguardia nel presente”, con grande disappunto di quegli studenti che sono stati poi costretti a leggerlo, e per farlo ho dovuto comunque rinunciare al proposito di un libro di critica pura, quindi corredandolo di immagini e schede. “Al riparo del pensiero” di Zimarino possiede invece questa virtù testuale unitamente ad una inconsueta forza anticonformista che gli fa citare testi inusuali, autori pressappoco sconosciuti insieme ad altri di grande fama. Fra gli sconosciuti Zimarino cita anche me e alcuni dei miei testi tra cui persino un paio di articoli pubblicati sul web e che non sono mai stati trasferiti su carta. Davvero strabiliante. Per me che vivo nella persuasione anglos (se qualcosa può andare male andrà male) e nel cinismo latinos (va male perché questa è l’inclinazione naturale e umana delle cose) l’idea che qualcuno se ne infischi delle convenzioni e si proietti in un lavoro di pensiero aiutandosi con i materiali che apprezza e non con le facili citazioni della Krauss mi disorienta.
Resto della convinzione che oggi nessuno legga nulla a parte chi compia degli studi in cambio di un esame nel settore, per cui la mia sorpresa è stata veramente grande nel vedere che qualcuno si sia dato la pena di controllare i caratteri di alcuni testi pubblicati sul web e non solo le immagini con una visione a nanosecondi. Mi sono detto, una critica etica! Cosa motiva un impegno così rilevante? Il testo di Zimarino separa la critica dalla curatela professionale sostenendo che nella proiezione funzionale dei nostri giorni, al riparo del pensiero critico, si sia compiuta una desertificazione del senso intellettivo dell’arte in favore di una complessità dell’agire e in cui la scrittura critica risolve alcune questioni di metodo e non indaga i meccanismi della forma significante. Non è una formula schematica ma ci descrive bene e ci indica come e chi possa approfittare di questa cautela intellettuale della critica ponendosi al riparo da essa. Un meccanismo mercantile vorace e sublimatorio che, secondo l’autore soprattutto nella nostra estrema propaggine periferica di “sistema dell’arte”, consente la persistenza di automatismi immediati quali la consacrazione di una forma sull’altra anche in mancanza di un qualsiasi significato differente. Naturalmente il mio giudizio non si discosta di molto da quanto detto ma a differenza di Zimarino, che sembra incurante delle reazioni che una simile lettura reale delle cose può condurre, ho imparato a diffidare della verità di un impulso intellettivo sulle cose dell’arte. Cautela nei giudizi e omologazione sono infatti la soluzione per la sopravvivenza e per coltivare l’accidia. D’altra parte a fare il Donchisciotte ci si stanca.
Successivamente una domanda mi si pone. Ma se questo porsi etico della critica significasse una nuova consapevolezza della forza del pensiero? Ovvero il dispiegare non solamente i meccanismi contorti del sistema, ma anche la volontà di dare risposte e analizzare contestualmente l’opera d’arte, in una manifesta indipendenza critica dal supposto valore mercantile. Potrebbe essere. D’altra parte mai come oggi, anche se si sostiene il contrario, le nuove generazioni di critici e curatori hanno la possibilità di esprimersi e di manifestare liberamente il proprio senso critico. Contorcendosi magari dal dolore quanto più si percepisce che questo sistema favorisce i paracadutisti e non gli scalatori di senso, ma senza arrendevolezze. Difficilmente lo si fa. Basti osservare la quantità di riviste e pubblicazioni in cui la critica si manifesta per capire di come ci sia bisogno di una educazione alla responsabilità del senso. Per quanto sia estremamente facile farlo, ad esempio con le pubblicazioni in rete, accessibili, economiche e di grande diffusione, riesce davvero ostico riuscire a trovare una scrittura critica che manifesti una differente visione delle cose, che enunci una responsabilità diversa. Si dice che tutto è bello, importante, e sono stupidi quelli che non lo sanno e sono out. Dimenticato anche l’uso della stroncatura oramai gli artisti e l’arte sono seguiti da una schiera di plaudenti e amichevoli sguardi incarogniti gli uni con gli altri solo quando non si riesce a tenere il passo con il più fortunato, con il prescelto dalla cura e dal sistema del mercato.
Nessuno osa contrastare questo flemmatico sistema di consenso; e si badi, non si tratta di permeare volgarmente il discorso della critica di allocuzioni pleonastiche di dubbio valore o di basso lignaggio civile, ma di trattare la forma nella sua consustanzialità storica, provvedendo a fornire il peso specifico dell’opera di una consistenza letteraria. Oppure si corre il rischio di innalzare il monumento allo snobismo della cecità e finire come un pessimo studente, sgangherato e presuntoso, che si presentò un giorno con uno dei miei testi in mano urlando un’arringa pro Jeff Koons, da me a suo dire maltrattato, come se stesse salvando l’ultimo degli artisti misconosciuti e non il più pagato e famoso del mondo; e si può finire davvero a pensarsi un critico curatore con il beneplacito di un consenso indifferente producendo una storia costruita per affinità geografiche e non per interessi intellettivi. E può accadere, come è accaduto, che ci si possa anche vantare di essere così assopiti da costruire identità sperimentali dell’arte facendo riferimento solo a quello che decide il mercato. E poi inserire con cura i risultati delle aste e le frequenze degli artisti nelle fiere e nelle mostre in un bel foglio di calcolo e realizzare così, scientificamente, la cura “excel”, l’eccellenza divinatoria sotto il nume tutelare dell’anestetica e di Bill Gates, non a caso l’uomo più ricco del mondo. Chi se non lui può dire cosa è oggi arte se accettiamo un mondo senza critica?
Roma, 11 Luglio 2007
Pochi giorni fa mentre me ne stavo accidioso davanti al computer nel mio studio “clandestino” all’università ho trovato sulla scrivania una busta contenente un libro, dal titolo “Al riparo dal pensiero”. L’autore, Antonio Zimarino, mi era sino a quel momento sconosciuto. Il libro, edizioni Tracce di Pescara, presenta in copertina l’immagine di un uomo imbrigliato da una museruola. La grafica scarna, i colori della copertina in bianco e nero con il solo titolo in rosso lasciavano supporre un testo scritto a muso duro, diretto. Mentre la segretaria con il suo chiacchiericcio subdolo tentava di distrarmi dall’indagine ho realizzato con una punta d’invidia e molta ammirazione che quel testo parlava della critica d’arte attuale e delle relazioni con le metodologie curatoriali del nostro tempo. Perché una punta d’invidia? Quando nel 1992 scrissi il testo “Avanguardia nel presente” avevo pensato di fare qualcosa di molto simile nel formato. In quegli anni credevo che del discorso critico non si volesse parlare, distratti come si era dalle dinamiche imperanti del fare e del produrre cose, azioni, mostre e spettacoli. Conservo con una certa gelosia la lettera di diniego speditami dall’allora responsabile della Feltrinelli in cui si diceva con una cruda forza polemica, quasi insultante, che di critica se n’era già fatta troppa e che il mondo poteva farne oramai a meno. Avrei persino voluto risponderle ancora più polemicamente confutando il significato che lei faceva di “critica” e che in realtà designava un’attitudine retorica in voga per tutto il decennio degli Ottanta e che nei primi Novanta era confluita nella testualità descrittiva o affabulatoria dei critici curatori. Il fatto è che già in quegli anni l’idea perniciosa della critica d’arte, di un linguaggio pieno e denso di significati che fosse connaturato al percorso dell’arte, riusciva incomprensibile soprattutto agli occhi di chi quelle letture le confinava ad un livello utilitaristico e funzionale. Mi ci sono voluti otto anni per riuscire a pubblicare il testo di “Avanguardia nel presente”, con grande disappunto di quegli studenti che sono stati poi costretti a leggerlo, e per farlo ho dovuto comunque rinunciare al proposito di un libro di critica pura, quindi corredandolo di immagini e schede. “Al riparo del pensiero” di Zimarino possiede invece questa virtù testuale unitamente ad una inconsueta forza anticonformista che gli fa citare testi inusuali, autori pressappoco sconosciuti insieme ad altri di grande fama. Fra gli sconosciuti Zimarino cita anche me e alcuni dei miei testi tra cui persino un paio di articoli pubblicati sul web e che non sono mai stati trasferiti su carta. Davvero strabiliante. Per me che vivo nella persuasione anglos (se qualcosa può andare male andrà male) e nel cinismo latinos (va male perché questa è l’inclinazione naturale e umana delle cose) l’idea che qualcuno se ne infischi delle convenzioni e si proietti in un lavoro di pensiero aiutandosi con i materiali che apprezza e non con le facili citazioni della Krauss mi disorienta.
Resto della convinzione che oggi nessuno legga nulla a parte chi compia degli studi in cambio di un esame nel settore, per cui la mia sorpresa è stata veramente grande nel vedere che qualcuno si sia dato la pena di controllare i caratteri di alcuni testi pubblicati sul web e non solo le immagini con una visione a nanosecondi. Mi sono detto, una critica etica! Cosa motiva un impegno così rilevante? Il testo di Zimarino separa la critica dalla curatela professionale sostenendo che nella proiezione funzionale dei nostri giorni, al riparo del pensiero critico, si sia compiuta una desertificazione del senso intellettivo dell’arte in favore di una complessità dell’agire e in cui la scrittura critica risolve alcune questioni di metodo e non indaga i meccanismi della forma significante. Non è una formula schematica ma ci descrive bene e ci indica come e chi possa approfittare di questa cautela intellettuale della critica ponendosi al riparo da essa. Un meccanismo mercantile vorace e sublimatorio che, secondo l’autore soprattutto nella nostra estrema propaggine periferica di “sistema dell’arte”, consente la persistenza di automatismi immediati quali la consacrazione di una forma sull’altra anche in mancanza di un qualsiasi significato differente. Naturalmente il mio giudizio non si discosta di molto da quanto detto ma a differenza di Zimarino, che sembra incurante delle reazioni che una simile lettura reale delle cose può condurre, ho imparato a diffidare della verità di un impulso intellettivo sulle cose dell’arte. Cautela nei giudizi e omologazione sono infatti la soluzione per la sopravvivenza e per coltivare l’accidia. D’altra parte a fare il Donchisciotte ci si stanca.
Successivamente una domanda mi si pone. Ma se questo porsi etico della critica significasse una nuova consapevolezza della forza del pensiero? Ovvero il dispiegare non solamente i meccanismi contorti del sistema, ma anche la volontà di dare risposte e analizzare contestualmente l’opera d’arte, in una manifesta indipendenza critica dal supposto valore mercantile. Potrebbe essere. D’altra parte mai come oggi, anche se si sostiene il contrario, le nuove generazioni di critici e curatori hanno la possibilità di esprimersi e di manifestare liberamente il proprio senso critico. Contorcendosi magari dal dolore quanto più si percepisce che questo sistema favorisce i paracadutisti e non gli scalatori di senso, ma senza arrendevolezze. Difficilmente lo si fa. Basti osservare la quantità di riviste e pubblicazioni in cui la critica si manifesta per capire di come ci sia bisogno di una educazione alla responsabilità del senso. Per quanto sia estremamente facile farlo, ad esempio con le pubblicazioni in rete, accessibili, economiche e di grande diffusione, riesce davvero ostico riuscire a trovare una scrittura critica che manifesti una differente visione delle cose, che enunci una responsabilità diversa. Si dice che tutto è bello, importante, e sono stupidi quelli che non lo sanno e sono out. Dimenticato anche l’uso della stroncatura oramai gli artisti e l’arte sono seguiti da una schiera di plaudenti e amichevoli sguardi incarogniti gli uni con gli altri solo quando non si riesce a tenere il passo con il più fortunato, con il prescelto dalla cura e dal sistema del mercato.
Nessuno osa contrastare questo flemmatico sistema di consenso; e si badi, non si tratta di permeare volgarmente il discorso della critica di allocuzioni pleonastiche di dubbio valore o di basso lignaggio civile, ma di trattare la forma nella sua consustanzialità storica, provvedendo a fornire il peso specifico dell’opera di una consistenza letteraria. Oppure si corre il rischio di innalzare il monumento allo snobismo della cecità e finire come un pessimo studente, sgangherato e presuntoso, che si presentò un giorno con uno dei miei testi in mano urlando un’arringa pro Jeff Koons, da me a suo dire maltrattato, come se stesse salvando l’ultimo degli artisti misconosciuti e non il più pagato e famoso del mondo; e si può finire davvero a pensarsi un critico curatore con il beneplacito di un consenso indifferente producendo una storia costruita per affinità geografiche e non per interessi intellettivi. E può accadere, come è accaduto, che ci si possa anche vantare di essere così assopiti da costruire identità sperimentali dell’arte facendo riferimento solo a quello che decide il mercato. E poi inserire con cura i risultati delle aste e le frequenze degli artisti nelle fiere e nelle mostre in un bel foglio di calcolo e realizzare così, scientificamente, la cura “excel”, l’eccellenza divinatoria sotto il nume tutelare dell’anestetica e di Bill Gates, non a caso l’uomo più ricco del mondo. Chi se non lui può dire cosa è oggi arte se accettiamo un mondo senza critica?
Roma, 11 Luglio 2007
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