giovedì 26 luglio 2007

LA VITA ATTIVA, CONTINUITA’ DI SENSO

Antonio PICARIELLO
“Il valore essenziale dell’arte sta nell’essere l’indizio del passaggio dell’uomo nel mondo, la sintesi della sua esperienza emotiva; e siccome è per l’emozione, e per il pensiero che l’emozione provoca, che l’uomo vive sulla terra la sua vera esperienza, egli la registra nei fasti delle sue emozioni e non della cronaca del suo pensiero scientifico, o nelle storie dei suoi reggenti e dei suoi padroni”. “La facoltà che opera nella vita attiva è la Volontà. La facoltà da cui dipende l’arte è l’Emozione”. Dunque la vita attiva non precede in modo assoluto la vita contemplativa; la vita contemplativa riguarda direttamente l’amore di Dio, e la vita attiva riguarda l’amore del prossimo. Ma l’amore di Dio precede l’amore del prossimo, poiché il prossimo è amato per Dio. Perciò anche la vita contemplativa precede quella attiva. “Si deve notare che come è giusto nella vita procedere dall’attiva alla contemplativa, così spesso è utile che l’anima dalla contemplativa ritorni alla vita attiva.Dunque la vita attiva non precede in modo assoluto la vita contemplativa.Cose che si addicono a soggetti diversi non hanno necessariamente un ordine tra loro. “Mi sono esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano variati drammi”. Ora, la vita attiva e quella contemplativa si addicono a soggetti diversi. “Molti di quelli che tranquillamente avrebbero potuto contemplare Dio, caddero sopraffatti dalle occupazioni; e molti che avrebbero vissuto bene, se occupati, perirono sotto la spada dell’ozio”. “L’artista non si deve preoccupare nemmeno della verità di ciò che descrive. Gli è lecito scrivere un poema in cui si violano tutte le probabilità - sempre che, è chiaro, la violazione di queste probabilità non implichi direttamente un difetto della natura del poema, come sarebbe, ad esempio, un anacronismo in un poema storico, un errore psicologico in un dramma …-. Laveritàcompeteallascienza, lamoraleallavitapratica”. (arbitrario missaggio d’autore tra Ferdinando Pessoa e San Gregorio)
Non c’e dubbio il momento, direi l’atto, “storico” richiede prudenza e osservazione oculata. Precisa, mirata, come l’occhio del cecchino pretende, perché il nostro pianeta ha invocato il ciclo del cambiamento e tutta la geografia umana si è accordata, tacitamente, per evento naturale, ad esaudire questo desiderio epocale. Siamo in preludio di qualcosa che dovrà necessariamente avvenire, siamo certi di essere la preistoria del prossimo futuro, siamo, perché siamo “previsori” e revisionisti storici, prodromi eccellenti, perché siamo gente che respira la conoscenza storica e la sapienza dell’arte, siamo, perché sappiamo e possiamo esserlo, sensibili alle foglie in procinto di cadere e nella loro avvenente azione di distacco dalla linea stagionale che le ha nutrite noi, uomini e donne votate all’arte, concepiamo tutto l’amore potente che la liturgia del cambiamento esige. Siamo la vita attiva che muove i circuiti sanguigni delle generazioni viventi, siamo la vita contemplativa che attira dio come magneti carichi di volontà a chiedere spiegazioni di tanta complessità disorganizzata messa in atto per le nostre limitate cellule neurali. Siamo sistema vivente nelle reti dei nuovi atti storici, lucido globalismo in fermento che ha appena scoperto il piacere acerrimo del gioco babelico dei fraintendimenti; linguaggi che rimandano ad altri linguaggi, codici indecifrabili, segni che in solitudine attendono l’osservatore capace di ascoltare il loro discorso significativo; orme che calpestano altre orme come un disegno grande di passi circolari che appare planimetrico dalla visione aerea delle anime che ci lasciano per spostarsi verso altre dimensioni. Verso altre paure da discutere e dibattere scientificamente. Verso nuovi aforismi da scambiare sensibilmente con il pensiero artistico unica meraviglia solitaria che attinge al cuore della verità esistenziale e ci rimanda, come anni passati in una cella del deserto dai padri storici, come anacoreti che potevano sentenziare con grande libertà di spirito: “ Un uomo passa cento anni in una cella e non sa nemmeno come bisogna stare in cella”. E qui sembra di sentire la voce narrante e indagatrice di Mario Perniola che manovra preziosamente l’’attenzione verso l’idea della cripta, per esprimere sia la resistenza alla banalità e all’omologazione, sia la tipicità di uno spazio che si definisce e autodefinisce, contemporaneamente, come spazio esterno e interno dove l’opera d’arte che preannuncia il futuro “sarà criptica o non sarà…”. Ma al concetto di cripta, associato per immagine semantica a quello di segreto, (i segreti dell’arte custoditi da sentinelle di artisti che si passano il compito ora di guardiani ora di cavalieri), si aggiunge quello fluido e significativo dell’opera, intesa come timbro e tono espressivo del carattere della “cosa” che compete, per dovizia, inevitabilmente, anche ai prodotti forniti dalle cognizioni del pensiero. E la “cosa”, nella sua ostinata opacità, non può che sottrarsi ad ogni eventuale tentativo di renderla perfettamente chiara e trasparente; c’è sempre un “resto” che non si lascia eliminare, e che pronuncia il suo dittico diviso, soffiando nelle sinapsi la certezza che ogni “cosa illuminata” porta necessariamente con sé la sua ombra. C’è sempre un nucleo opaco della cosa che si capta, secondo il mio dovere di guardiano, solo attraverso la qualità della sensibilia, strumento regale e verità esclusiva data in dote al pensiero navigato dell’artista. Così ci si avvinghia come serpenti in amore o come singolare rappresentazione nel simbolo prezioso dell’Uroboro sostanza immaginifica della natura ciclica delle “cose”, dell’eterno ritorno, dove tutto è rappresentabile attraverso un ciclo che ricomincia dall’inizio dopo aver raggiunto la propria fine. E conclude, cominciando, “qui”, dall’inizio, nella magica poetica pessoniana che porta il segreto e la cripta a confessarsi con dio o con se stessi nella sintesi del pensiero contemplativo divenuto contemplato dal sincronismo raggiunto dalla pletora di un esterno-interno, di un dentro e fuori a guisa di vita attiva o vita meditativa che urla al mondo delle arti il missionario tributo enunciato nel: “Mi sono esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente.Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano variati drammi”. Ed è con questa scena che si presentano, nello spirito incarnato dalle opere o dal corpo vivo che le compone, gli artisti di questa rappresentazione. Così Salvo, estraendo all’origine la dissipazione liquida di Bacon, passando attraverso Van Gogh, Rembrandt, Chagall, e Fontana approda ad uno stile sintetico che guarda al mondo cromatico delle forme strutturate dal fantastico e dal classicismo che premette alla ricerca solitaria di Elena Manzan che con lo sguardo paesaggistico delle Mainarde e la sua natura sudamericana estrae dall’esperienza del recupero degli affreschi scorci pittorici che raccontano figure magiche di donne, fantasmi nostalgici che passano come tra sgocciolamenti cromatici e gli interstizi murali o della tela con lo sguardo sottile infilato nelle riflessioni di chi le guarda. E allo stesso modello e principio concorrono le opere della polacca Monica Griczcko, dello spagnolo Ramon Tassiis, e dell’alemanna Rosemarie Rockel, che nei diversi stili e con un diverso linguaggio comunque qui, tra i corridoi attivi della città vivente, incontrano la loro affiliata archetipalità europea e la rimettono al carattere benigno dell’anima urbana pentra riattivata nella sua sostanza familiare dalla dichiarazione espressiva di chi il luogo lo compone per appartenenza oltre che per lettura interpretativa. Così Marco Tamburo, con “Passaggio pedonale” riporta il senso dei segni normativi che regolano il flusso comunicativo nel caotico sistema delle città, Michele Peri e Ernesto Liccardo rinvigoriscono la vita attiva della manifestazione dichiarando il corpo organico espresso dalla contemplazione sottesa dal luogo che richiama vicinanze archetipali e ricerche linguistiche specifiche dichiarate dall’espressività visiva di Davide Bramante che nel cuore ottico conduce la sostanza siracusana congiunta alla profonda visione fotografica delle immagini di città trasformate dai fotogrammi in atti di vita collettiva raccontata per frammenti. Questa visione contemplativa dell’atto fotografico si unisce alla passionalità matura e fondante di “Made in Italy” di Cesare Pacitti dove la sintesi della cultura materiale italiana si sintetizza nell’acrilico incorniciato dall’idea che comunica lo stilismo nostrano nella visione straniera. Da sempre compagno di viaggio nella ricerca di Antonio Laurelli che di questa manifestazione assume lo scatenamento della volontà globale della messa in scena, volontà tipicamente sintetica e aperta dal suo segno espressivo che qui inquadra nella struttura istallata, ma direi quasi scultura, il senso circolare dell’equilibrio del mondo e della natura carica del suo tempo biologico e delle sue proprie geometrie che nell’opera diventano racconto teatrale; una commedia dell’arte che incontra per sodalizio di gruppo la vigoria pugliese di Franco Valente e la sanniticità irpina di Edoardo Iaccheo , investendo così, nella coralità meridionale, la composizione della voce del luogo attraverso istallazioni che richiamano, a pieno merito, la continuità di senso della vita attiva. Di controcanto suona la voce di Stefano Cagol che inserisce nello schema autoctono la narrativa asiatica di “tokyospace”; due video realizzati a Tokyo, messi in modo consequenziale e loopati su un unica grande proiezione che presenta :“La moltitudine si assiepa sui tre fronti, converge al centro e si dissolve nella piazza, negli edifici, nelle grandi strade, nei vicoli e nei passaggi, come in un grande respiro regolare. Grandi insegne luminose costituiscono la complessa architettura del luogo. In alto i maxischermi restituiscono giganteschi frammenti di microstorie”. E a lui per continuità di scelta di strumenti, si abbina la sperimentazione del cyber painter Marco Cardini “Semina Sowing” presentato alla 52esima Biennale di Venezia dall’estetologo cibernetico Giuseppe Siano “la cui pecularietà è interagire con un nuovo linguaggio elaborato dal computer. Il suo intento è quello di cercare un ulteriore nesso concettuale con l’opera di Beuys rimasta progetto nel titolo Semina Montana Operazione elicottero. Riapre così un campo già iniziato negli anni novanta nell’idea geniale da Michele Mariano che adesso traduce idee in altre idee per un rete infinita di occasioni geniali offerte dalla maturità raggiunta dal pensiero lanciato oltre ogni possibile confine del copro e dello spazio e ritornante come aria salubre del sapere nei circuiti spassionati del sistema globale sviluppando il senso intenso e leggero della storia dell’arte direttamente nelle tessiture a rete delle sinapsi, autonome e sufficienti come un graduale mondo tibetano ricodificato per la visone occidentale. Ed anche qui, la vita attiva e la vita contemplativa premettono alla continuità di senso attraverso l’origine geografica che richiama la partecipazione soggettiva di Luigi Mastrangelo che da sempre, con lucida visone psichedelica, mantiene intatto il suo linguaggio apparentemente figurativo come figurativo può essere considerato il gesto certo e deciso della scrittura magica e sacrale dell’Oriente. Artisti molisani che hanno costruito in Emilia il cuore atomico di Bologna anni ottanta, gruppo emblematico dal nome C-Voltaire che ha gettato le basi, passando per le previsioni del Medialismo, alla centrata visone post umana nelle figure extrasensoriali di Karin Andersen che dagli anni ottanta esplora con dovizia il mondo fantastico e fiabesco con la sensibilità berniniana del barocco, modellando comportamentismi quotidiani e abitudini a scene comuni con l’avanzamento visionario caro all’osservazione entomologica e contribuendo alla dimensione della visone scientifica anche con un magnifico testo elaborato con la complicità di Marchesini che è nel mondo scientifico uno dei massimi esponenti del campo. Da qui alla ricerca coerente, spesso affiancata ai principi di questa scuola bolognese espressa da Squp che agisce sul confine tra reale percettivo e reale semantico visitando con il segno il biologico, l’elettronico trasformando tutto il necessario complesso in corpo e ibridi corporei come fossero cellule urbane che negli anni e nel pensiero si trasformano secondo la generazione che governa le città. E ancora la città, con la sua memoria atavica riportata nella comunanza sapiente e spirituale di Mario Serra, Ernesto Saquella, e Terrigno “attraverso un insieme procedurale che sperimenta l’accordo delle tecniche artigianali e la sua riproposta nella luce captata dallo strumento fotografico. Cyberarte, arte pilota, navigante nel mondo delle idee e della creatività che si muove da una dimensione all’altra, dalla pittura all’obbiettivo passando nell’anima del luogo che esprime la bottega rinascimentale e le condizioni dei linguaggi comunicativi dei grandi manifesti voce urlante delle strade e dei luoghi urbani. Alchimie sottili che respirano il compito e il dovere di riattivare le molecole ideali e propulsive messe in forma percettiva dall’accordo empatico degli artisti. E la territorialità archetipa riappare anche nella consapevolezza dell’occhio scenografico di Nicola Macolino che ricuce il virtuale teatrale nella realtà visiva del luogo vero. Sintetizza la globalità invasiva con spazi prospettici emanati dalla cornice ideale che confina la scena; si riprende così la sostanza salubre propagandata dall’antica maniera della commedia dell’arte che diventa intervento parlante nella città attraverso le ideazioni di punti sollecitati dalle istallazioni nello spazio della città che inserisce l’opera eclatante e scultorea di Vanni Macchiagodena e che traduce le forme antropomorfe alienate dai pieni e dai vuoti in classici sistemi della visione cara al mondo toscano e ai luoghi di pensiero che hanno da sempre familiarità con una certa elezione nobiliare dell’ottica in cui la materia e la percezione giocano alla sostituzione semantica delle idee e delle analogie costituendosi parti grammaticali in ricerca spaziale di una probabile o probabilistica sintassi che il “Madì” di Vincenzo Mascia traduce in nuova ricerca geometrica sentendo, adesso, la necessità di adottare il linguaggio storico con nuovi valorizzanti elementi discorsivi puntati verso il senso evolutivo delle classiche grammatiche Sudamericane passando dall’area partenopea di Roberto Di Bianco che lavora sullo sperimentalismo culturale, intriso di mentale e poetico tratteggiando identità attraverso lo scorrimento della materia pensata nell’anima e sulla tela. E dal partenopeo sfoga libertà di vita attiva anche Enzo Marino che matura lungo la via veterana il gesto scultoreo precisando l’azione con un calibro del movimento delle forme che attivano la controparte molisana di Antonio Giordano che dell’equilibrio risalta il concettualismo applicato come un manovratore di classicità da cui insorge la nobiltà più sentita della contemporaneità. Così la vita contemplativa diviene attività fiorente nell’opera di Michele Carafa dove la scultura partecipante al materiale classico, marmo di Carrara, si gemella con l’architettura evitando l’ornamentalità dello spazio e impianta la precisione storica delle forme monumentali e sacre. Da qui l’arte della semplificazione che attiva sempre la passionale visione di Luciana Picchiello che davanti alla presentazione di un tema sintetizza con gesto sublime il senso del messaggio e la forza della ricerca riconducendo gli echi della poesia al senso continuativo e concreto dell’ideazione come un voto centrale posto al centro del deserto da cui si allontanano significativa,mente le orme solitarie della vita contemplativa, la stessa che Giancarlo Costanzo riporta nel simbolismo drammatico di due binari che scrivono antiche memorie e contemplazioni dell’adesso facendo riapparire, attraverso l’espressività dell’arte, il concretiamo dei due momenti, l’attivo e il pensato, come disfacimento dell’orlo nella composizione tratteggiata della storia europea. Franco Fiorillo non si arrende. Sulla scia dei processi di “Emergency” sintetizza a pieno il senso portante del linguaggio preannunciando nuove culture materiali, che premettano al visivo e alla percezione significativa delle mappe trasformate in codici Braille significanti mine come a dire che l’ottica contemporanea svolazza nella consapevolezza del nulla come un antico quadro di Bosch dove ciechi conducono per mano altri ciechi verso l’inesauribile dominio delle ripetizioni belliche. E con lui si affiancano Angelo Colangelo, Mandra Cerrone, Cecilia Falasca che dal gruppo di Spoltore, dai colori del territorio, dirigono la loro visione del mondo alla maniera con cui nel medioevo i maestri conducevano il pellegrinaggio dell’arte lungo i luoghi e le geografie per servire dio e gli uomini a lui. Le catene e l’impianto della costrizione nel castello di Macchiagodena, le piastrelle lineari che folgorano le pareti del maniero, le lavandaie del denaro che brillano come opera caravaggesca di vocazione al recupero di pensieri infausti svolazzanti nel globalismo universale e che costruiscono mondi comunicativi non solo nel linguaggio simbolico della merce, sia essa denaro o televisione, ma soprattutto attraverso lo scambio impercettivo del contatto tra gli elementi sociali attraverso gli oggetti d’uso, il denaro appunto, che ha necessità di purificazione per la salvezza dell’umanità. Raimondo Galiani partecipa con espressiva maniera dello screening dell’arte che folgora sperimentali percorsi, a volte provocatori a volte inquadrati da una cornice concettuale che mira al discorso profondo della ricerca e nella provocazione ironica e immediata si presenta anche l’opera di Giuseppe Veneziano che con il superman inchinato sulla ceramica riporta la condizione del superuomo alla sua normale attività di animale urbano. Ed è appunto la città, nelle linee dei geocartoon di Nino Barone che ricompone la sua lineare e labirintica memoria; città adriatiche e territoriali che assumono gli aspetti di tracciati storici come segni tratteggiati ad indicare il linguaggio occulto che si accumula nel sottofondo comportamentale delle generazioni e nella comunità che sale come boccioiniana riflessione nelle vene della vita attiva che Ettore Frani tra oli e frammenti destrutturalizza chiedendo alle filosofie della strada che valore ha la conoscenza se non si partecipa alla danza?. Ed è la danza che apre il palco dei grandi pensieri messi nelle orbitazioni della cultura dell’arte mondiale. Qui la china di Gino De Dominicis sintetizza la sua totale indipendenza dalle mode e correnti artistiche degli ultimi decenni. Dalla filosofia corrente, ma anche indipendenza dalle varie correnti artistiche succedutesi dal dopoguerra ad oggi. Per scelta non esistono cataloghi o libri sulla sua opera. Alla fotografia non concede nessun valore di documento e di veicolo pubblicistico della propria produzione ed anche qui, in fin dei conti il catalogo non chiede nulla che possa oltrepassare il senso Comune dell’incontro tra espressioni dell’arte che chiedono giustizia al mondo che porta con continuità di non senso la contemporaneità sempre fuori dalla rotta delle verità esistenziali e comportamentali. E non forse questo la volontaria immersione nel segno informale dettato alla mentalità italiana e occidentale dalla maestria indiscussa di Emilio Vedova ?. Dall’espressionismo al gruppo di Corrente alla combattività, non solo artistica, del Fronte nuovo delle arti agli interni di fabbrica per concludere con il massimo ritrovato del segno che perde la sua abituale e sensazionale canonicità per entrare in una struttura assente che lo dichiara, appunto, segno informale che in questa opera raggiunge tra i non molti, uno dei sui apici di bellezza. Così l’esplorazione sistematica della propria identità portata all’ autobiografismo intenso si riversa in creatività esplosiva nell’opera di Cuoghi una narrata “egomania” che stabilisce un funzionalismo centrato alle condizioni disperse dalle contemporanee civiltà. Ed ecco i primi segni di coscienza alla lotta per la qualità che richiede la bellezza di vivere e che attraverso il linguaggio artistico modella scene per la mente, connessioni neurali che aprono ad altre connessioni come salubre giardino dell’anima che Gianni Pedullà traduce con le sue ricercate forme proposte istintivamente dagli incontri con i tessuti; sete e modelli scultorei che diventano allegre magie fauste e cariche di nobiltà visiva che raccontano il valore dell’infanzia nella vita attiva e successiva costruzione di quella matura e contemplativa dando continuità di senso all’apprendimento del proprio punto di vista sul mondo. Si affranca la sistematica ricerca e la celebrazione del segno-colore di Carla Accardi che connota la forza della femminilità tra i massimi esponenti dell’astrattismo italiano. Con questa opera dei primi anni settanta la ricerca sembra dettare i punti evolutivi dei vari ritrovamenti dove ancora il segno cromatico, rosso intenso su fondo verde, lascia nell’indefinizione della scrittura criptica il valore dello spazio rappresentato e mentale distinto nell’ambivalenza di quello che contiene da quello contenuto, “cosa” che successivamente, l’ossessione della ricerca lascerà esplodere espandendosi e assorbendo il fondo e il segno in una unica impresa percettiva e semantica che in metafora traduce, in qualche sentita maniera, la differenziazione del linguaggio maschile, il segno significativo, dalla fondale struttura del segno femminile e li assimilerà concentrandoli in un unico sistema corporeo, in un unico sistema universale che Alighiero Boetti o Alighiero e Boetti come vorrà “farsi firmare” a partire dai primi anni del 70 tradurrà dall’ambito dell’Arte Povera “trasportandosi” a Roma nel piacere della luce e dei colori disgiunti dal rigore torinese. La scoperta dell’Afghanistan, noto luogo dei nostri attuali telegiornali, avvia il lavoro artistico che affida alle ricamatrici afghane tra cui le Mappe, Planisferi colorati che riproporrà lungo gli anni come registro dei mutamenti politici del mondo, prevedendo con il senso concreto e prodromo della vita contemplativa, quella dell’artista, il successivo modellamento contemporaneo avvenuto nella struttura sistemica della vita attiva attuale mostrata dalle opere in mostra che Marina Colonna, sua alleata mentale ai tempi della scoperta della città romana, riporta a documento di un processo che testimonia la saggezze e l’umiltà ecumenica che l’artista per propria natura, intellettuale e spirituale, come anacoreta in una grotta del deserto, emanava ed emana con potenza stellare alle generazioni umanitarie in cerca continua di un referente sicuro tra ciò che è il senso continuativo della vita attiva, l’azione, e il suo gemellare stato sanguineo con la vita contemplativa; il pensiero che ci unisce tutti nella rete collettiva e con Dio. Nella solitudine del deserto o nell’organizzazione multipla delle città.

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